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Premessa
Il rumore dei passi nel ghiaino che circonda la chiesa di San Giorgio
quasi è di disturbo al visitatore che arriva a Collalto una sera
qualsiasi. Nella pace del borgo, tra acacie ed abeti mossi dal vento,
c’è la storia di un paese lunga di mille anni. Tra quelle mura medievali
distrutte dalla guerra e quel torrione squadrato rimasto in piedi a
testimoniare gli antichi fasti c’è la storia di una comunità che è
cambiata negli anni, ma che è pur sempre rimasta uguale.
Collalto è luogo di umanità nata dalla sofferenza, dove ancora adesso la
gente si identifica con il proprio paese. E lo fanno anche i tanti che
da Collalto se ne sono dovuti andare, per trovare lavoro lontano, oppure
perché lì non c’erano case da abitare o terreni dove costruirle.
Tanti tornano a respirare l’aria, ad ascoltare i suoni dei boschi e dei
ruscelli, ad assaporare il pane fatto come una volta e a perdere lo
sguardo dei ricordi tra le brecce delle mura verso quel Quartier del
Piave ricco e saccheggiato.
La storia recente di Collalto ha un punto fermo: don Pietro Battistella,
parroco per più di quarant’anni nella chiesa di San Giorgio.
Intorno alla figura del prete tante storie di uomini e donne, tanti
costumi e tradizioni che piano piano si dileguano e che marcano il
percorso inesorabile della nostra società verso l’individualismo.
Ma a Collalto l’umanità resiste, resiste ancora e forse resisterà per
tanto tempo. Dipende dagli uomini e dalle donne che vi abitano.
A cosa può servire allora raccontare qualche storia o parlare di un
prete se non tentare disperatamente di allungare e mantenere vivo questo
sogno? (a. m.)
il
libro è disponibile presso le Librerie e Edicole di Susegana,
Conegliano, Vittorio Veneto, Treviso (Canova), Pieve di Soligo, Barbisano,
Falzé di Piave, Sernaglia della Battaglia, S. Lucia di Piave, Mareno,
Vazzola e altre.
A Collalto presso il Ristorante Due Torri e ogni seconda domenica del
mese
al Mercatino dell'Antiquariato di Collalto e al Mercatino di Ceneda a
Vittorio Veneto
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Una vita a Collalto
Arrivò in un tardo
pomeriggio di fine settembre in quel paesetto che pareva tenuto su dalle
edere che ricoprivano le antiche mura piantate lì dai conti di Treviso
fin dal primo Medioevo. C’era nell’aria una nebbiolina autunnale,
precoce per la stagione, ma la temperatura era buona e lungo la linea
dell’orizzonte si poteva intravedere il cerchio sfuocato del sole farsi
largo tra le nuvole basse poco sopra il Piave.
Giunse a Collalto il ventisei di settembre, magro e
longilineo, viso lungo e ossuto, coperto da un persistente pallore, con
uno sguardo quasi troppo severo per un prete con meno di quarant’anni,
che aveva risposto con scarso entusiasmo “obbedisco” all’ordine del suo
vescovo di prender servizio in quel borgo di case, sperduto fra le
colline di Susegana.
Era di venerdì e la domenica ci sarebbe stata festa
grande per il suo ingresso ufficiale in paese.
Don Piero preferì arrivare due giorni prima, insieme
all’anziana madre, per prendere confidenza con la sua nuova casa, tanto
in canonica da tempo non c’era più nessuno, perché don Gabriele aveva
fatto in fretta e furia le valige ed era partito missionario.
L’arrivo di un prete stabile era molto atteso in paese.
Don Giacomo era rimasto alla guida della parrocchia per
quattro anni; poi don Valentino e don Lorenzo, preti in prestito, non
avevano fatto in tempo nemmeno a conoscere tutti i parrocchiani che se
n’erano tornati alle loro chiese. E don Gabriele, che doveva invece
metter radici profonde nel conglomerato roccioso su cui poggia il paese
di Collalto, venne mandato precipitosamente in Africa a sostituire un
missionario ammalatosi di malaria e rientrato in Italia per curarsi.
Così la parrocchia rimase senza pastore per un po’ di mesi, fino a che
non arrivò don Piero.
I segni di una guerra che aveva visto il paese tanti
anni prima incrociare il fronte austro-italiano e macchiare di rosso il
fiume che scorre poco più a valle, non erano ancora del tutto scomparsi.
Persisteva quel profondo senso di desolazione che le guerre lasciano
intriso dentro i muri delle case scampate al crollo, e che è difficile
cancellare persino da quelle abbattute e del tutto ricostruite.
Affiorava una povertà distribuita equamente tra la popolazione, ma
vissuta con grande dignità e rispetto reciproco. Solo che a pochi
chilometri sorgeva già la "Zoppas" e il miracolo economico era alle
porte, ma questo non avrebbe intaccato Collalto ancora per tanti anni.
Il due di giugno del 1940, a venticinque anni compiuti,
per Pietro Battistella c’era stata l’ordinazione sacerdotale e poi la
prima messa a Ceggia, nel Veneziano.
L’arrivo a Collalto è del 1952, a sette anni dalla fine
del secondo conflitto mondiale, meglio sarebbe dire a trentaquattro anni
dalla fine della Grande Guerra, perché a Collalto le ferite profonde
delle bombe italiane catapultate dal Montello non si sono mai
rimarginate, condizionando inesorabilmente e per sempre la vita della
comunità.
All’inizio del secolo Collalto è un borgo di case
aggrappate ad un cocuzzolo dove sorge un castello dal vissuto antico e
glorioso. Dall’anno Mille, quando sulla sommità del colle viene eretto
un embrionale fortilizio, nessun barbaro o veneziano che fosse riuscì a
violare il castello, se non quel Furio Camillo Collalto, figlio del
celebre Collaltino di Collalto, che poco dopo il 1580, con inaudita
violenza fratricida, saccheggiò l’antica dimora di famiglia seminando
morte e terrore.
Furono però le bombe della prima guerra mondiale a
cambiare del tutto la sorte dell’antico borgo.
Con almeno una decina di uomini morti e quattro mutilati per
cause belliche, il paese di Collalto paga un caro prezzo alla Grande
Guerra, ma è soprattutto con i nove decessi per fame, registrati nel
censimento post bellico, che la tragedia si presenta in tutta la sua
drammaticità: Giacomo Peruzzetto è trovato morto con parte delle mani
divorate nello strazio della fame.
La gente, inerme e soffocata dall’angoscia, in preda ad
una composta rassegnazione di fronte alla mostruosità dell’evento
bellico, non riusciva a reagire e anche quando si erano concluse le
ostilità la popolazione aveva continuato per lungo tempo la sua
quotidiana battaglia per sopravvivere alla fame, in attesa di tempi
migliori.
Chiusa l’attività della distrutta filanda, trasferita
poi al Barco di Ponte della Priula, viene meno l’unica industria del
paese, dove, in condizioni non certo agevoli, lavoravano quasi trecento
persone, provenienti anche dal circondario.
Il paese sprofonda nella miseria più nera e la fame
distribuisce pellagra a piene mani: manca tutto.
Le case del nucleo storico sono per la gran parte crollate o
pesantemente danneggiate dalle bombe. Dell’antico castello è rimasto
solo il grande torrione squadrato e le possenti mura squarciate dalle
esplosioni. Le case coloniche, sparse sulle colline, hanno subito gravi
danni quando non sono state del tutto distrutte: la comunità è in
ginocchio e in tanti hanno scelto la strada dell’emigrazione.
Per quanti sono rimasti, l’abitudine alla povertà più
cruda divenne una regola vissuta quotidianamente, quasi con ostentato
orgoglio.
Quando parecchi anni dopo a Collalto era arrivato don
Piero l’indigenza era vinta, ma non del tutto la povertà. In paese c’era
comunque un modo di collaborare tra le famiglie che, senza far tanto
rumore, riusciva sempre a compensare le situazioni di bisogno più grave
e che successivamente avrebbe assunto il nome di solidarietà.
Don Piero si sarebbe inserito in punta di piedi
dentro questi delicati meccanismi fino a diventarne il motore e
l’involontario ispiratore.
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San Martino e San
Giorgio
Quando arrivò dai
Dalla Longa era quasi sera. I ragazzi avvistarono don Piero al limitare
del bosco che spingeva la bicicletta nera da uomo con i freni a
bacchetta, il grande fanale e con quel portaoggetti di filo metallico
cromato bloccato con due bulloni proprio al centro del manubrio.
Spingeva la bici lungo la stradina sterrata e ripida con una fascia
d’erba al centro che porta alla casa giallognola dalla caratteristica
fascia rossa delle proprietà rurali della famiglia Collalto.
Ines chiuse la porta della stalla e si precipitò a
lavarsi le mani, asciugandole sul grembiule sporco, mentre i ragazzi
correvano a più non posso incontro al prete nella speranza che, come
l’ultima volta, ci fosse una caramella a testa da spartire.
“Tuo marito dov’è – chiese don Piero – e Marco?”.
“Mio marito è ancora nei campi e Marco ...è in stalla”.
Marco era un ragazzone piuttosto basso, di novanta
chili, aveva quasi l’età di don Piero ma il suo faccione tondo con gli
occhi a mandorla e i capelli irsuti tradiva il destino avverso che gli
aveva riservato la natura. Vestiva la giacca in grossa tela blu che col
freddo utilizzavano i bovari dei Collalto e che Ines aveva allargato del
tutto per farci entrare il cognato. Indossava poi un paio di calzoni
della stessa stoffa e dello stesso colore della giacca, tenuti su da una
cintura in cuoio annerita dal sudore, e sotto il gilet in lana aveva una
camicia chiara a piccoli quadri marrone, con i polsi rammendati infinite
volte, ma pulita e ben stirata.
Marco non faceva nulla, se ne stava seduto tutto il
giorno su uno sgabello in legno a tre gambe, guardava fissamente nel
vuoto e non parlava mai. A chi gli rivolgeva la parola sorrideva,
mostrando i denti gialli intervallati da ampi interstizi. Probabilmente
capiva tutto, sedeva a tavola senza disturbare, ma durante il giorno era
sempre lì, fuori dalla stalla, immobile come l’albero di melograno che
copriva per buona parte la luce del portico. Quando arrivava qualcuno,
lo facevano entrare in stalla dove aveva un altro sgabello poco discosto
dalla botola del sovrastante fienile da cui venivano calati fieno e
paglia per le mucche e i buoi.
“Tenetelo all’aria che gli fa bene” – sentenziò don
Piero, che non riusciva a digerire la costumanza di nascondere in stalla
i disgraziati e di vergognarsi delle malattie. “Sono prove del
Signore e un giorno saranno premiate”.
Dalla stessa strada irta e stretta che aveva portato
don Piero fino dai Dalla Longa spuntarono due grossi buoi aggiogati che
trascinavano un carro con l’ultimo fieno della stagione.
Giuseppe era un uomo robusto, dallo sguardo fiero, che
aveva tirato su una famiglia con tre figli grazie soltanto al suo lavoro
e che si era fatto carico di quel fratello maggiore rimasto solo quando
anche la vecchia madre aveva lasciato questa terra.
Quella sera non era d’umore buono e il prete se ne
accorse subito.
“Cosa c’è che non va, Giuseppe?” – lo affrontò.
“Lo sa meglio di me don Piero che a San Martino ci
hanno detto di lasciare la casa e noi non abbiamo i soldi per riscattare
la mezzadria e nemmeno sappiano dove andare ...con mio fratello poi”.
Giuseppe aveva una bestemmia che gli offuscava il
pensiero e che gli stava esplodendo nel petto, ma il timor di Dio che
gli aveva insegnato sua madre e il sincero rispetto per la figura di don
Piero ebbero il sopravvento.
“Sta’ tranquillo Bepi, parlerò io col conte e vedrai
che troveremo una soluzione – disse il curato – ma adesso non entrare in
casa con quel muso, ci sono i tuoi figli e c’è tua moglie”.
“Ormai è quasi sera, si fermi a mangiare un piatto di
fagioli con noi, don Piero” - disse Ines.
Il prete, che aveva già da un pezzo individuato tra gli
odori dell’aia anche quello dei fagioli fatti bollire con la cotica di
maiale a cui da tempo era stato sottratto il lardo, allargando le
braccia e alzando gli occhi al cielo in segno di ringraziamento al
Signore fece cenno di sì.
Don Piero entrò in cucina non senza essersi pulito le
scarpe sul ferro sottile, piatto e ricurvo, infilato nel cemento dello
scalino tanti anni prima, precisamente nel 1925 come recitava la scritta
tracciata forse con un chiodo proprio nell’anno della ristrutturazione
post bellica della casa colonica.
Prima di sedere a tavola tutti fecero il segno della
croce, don Piero impartì la benedizione e subito dopo bevve un sorso di
un vino rosso un po’acidulo, ricoperto di piccoli fiori bianchi, che da
tempo reclamava il frutto della nuova vendemmia.
Nella grande cucina, sotto le lunghe travi fresche del
bianco estivo della calce, c’era una luce fioca. Gli unici mobili erano
una credenza in legno verniciata di un verdino mescolato con altre tinte
recuperate da vecchi vasi, tanto da renderlo un colore indecifrabile.
C’erano poi un baule enorme in abete rosso dove potevano nascondersi tra
i pochi effetti almeno un paio di bambini e un cassone senza coperchio,
pieno zeppo di legna, posto vicino al focolare dove bruciavano alcuni
ceppi di gelso.
Dal soffitto pendevano, srotolate, due lunghe carte adesive
inzaccherate di mosche, sopravvissute alla quotidiana disinfestazione
della cucina con un potente insetticida irrorato con una piccola pompa a
stantuffo.
Sulla credenza erano sistemate le foto incorniciate dei
genitori di Giuseppe, accanto ad una grande terrina che si riempiva di
ciliege e pesche in estate, di mele, pere e noci in autunno e di nulla
per il resto dell’anno.
La lampadina emanava una luce fioca e giallognola
perché la casa dei Dalla Longa era l’ultima della lunga linea elettrica
che partiva dalla cabina posta appena fuori del paese. In quell’atmosfera
che pareva essersi fermata a cinquant’anni prima don Piero invocò
sommessamente il Signore. “Da’ la forza a questa povera gente di
riscattarsi, altrimenti come possono credere ancora nella tua
misericordia?”.
Finita la cena, Giuseppe accompagnò il prete fin sulla
porta. Questi gli strinse tutte due le mani e guardandolo dritto negli
occhi gli disse: “abbi fede e prega il Signore”.
Quella sera prima di ritirarsi in canonica don Piero
tirò fuori dalla tasca la chiave della chiesa. Entrò dalla porta
laterale. C’erano solo poche candele accese. Passò davanti all’altare
maggiore omaggiando il Signore con un saluto reverente e si inginocchiò
di fronte alla statua della Madonna posta sull’altare della navata
destra. Era un devoto della Madonna da sempre, ma il suo legame con
quella statua di gesso colorata di bianco e d’azzurro da cui pendeva una
coroncina del rosario era diventato indissolubile fin dal giorno in cui
si era recato personalmente a Padova per comprarla, in un negozio nei
pressi della basilica del Santo.
Don Piero nelle sue preghiere e nelle sue riflessioni
si rivolgeva sempre a Dio quasi per rispetto gerarchico, ma quando la
preghiera faceva vibrare forte le corde della sua fede e le lacrime
solcavano il volto scavato dalla magrezza, don Piero si trovava sempre
davanti alla statua della Madonna.
Quella sera pregò Maria con una intensità tale che la
statua pareva sorridergli, ma lui non poté vederla perché dietro al
volto coperto dalle grandi mani aveva gli occhi inondati da un pianto
dirotto.
La mattina dopo don Piero inforcò la bicicletta di
buon’ora, percorse con lena da ciclista la strada polverosa che porta
verso il Colle della Tombola e Colfosco, poi imboccò veloce la discesa
fino al castello di San Salvatore e ancora giù per quella carrareccia
ripida che si era fatta improvvisamente più larga ed era stata asfaltata
di fresco con del bitume magro e chiaro, fatto di pietrisco appuntito
incollato al terreno con poco catrame.
Entrò nel grande piazzale inghiaiato della cantina dal
cancello riservato alle maestranze. Fuori c’erano già una decina di
carri che aspettavano il loro turno alla pesa, prima di scaricare l’uva
raccolta il giorno prima finché c’era stata luce e lasciata tutta la
notte, sotto il portico, al riparo dalla rugiada.
Don Piero raggiunse gli uffici dell’Amministrazione
Collalto che erano da poco passate le otto e chiese subito di essere
ricevuto dal conte.
“Arriverà verso le otto e mezza” – disse con voce fioca
l’anziana impiegata che nell’azienda faceva un po’ di tutto ed aveva
appena finito di spolverare la scrivania del conte.
Rambaldo di Collalto arrivò puntuale alle otto e mezza con la Renault 4
color beige e i suoi due bassotti sul sedile posteriore. I cani
abbaiarono nervosamente alla tonaca nera del prete ma il conte li zittì
subito con un energico “buoni!”.
“A cosa devo la sua visita don Piero?”.
“E’ per via dei Dalla Longa che a San Martino devono lasciare
la casa e non hanno dove andare. Faccia qualcosa per quella povera
famiglia, sono gente per bene, timorati del Signore e poi hanno anche
...quel ragazzo”.
Ci fu una breve pausa nel silenzio più assoluto che a
don Piero parve un’eternità. Il conte, portata la mano destra sul mento
e arricciati i lunghi baffi, si schiarì la voce con un colpo di tosse.
“Riferisca loro che ne parleremo fra un anno ...ma mi dica, la chiesa è
tutto a posto? Gli affreschi li facciamo vero?”.
Don Piero inspirò lentamente e profondamente. Pensò
alla Madonna e al più sfortunato dei Dalla Longa e rispose: “in chiesa
entra acqua proprio da dietro l’altar maggiore, bisognerebbe ripassare
almeno quel pezzo di tetto, ma già che ci siamo, prima che arrivi
l’inverno, sarebbe forse meglio ripassarlo tutto”.
Il conte annuì e si prese nota sulla carta ingiallita
di un quaderno a righe, ma insistette per sapere di quegli affreschi che
il curato aveva commissionato ad un artista arrivato ormai ad una certa
fama, tale Bepi Modolo da Santa Lucia di Piave, presso il cui studio già
armeggiava con i pennelli il giovane Elio Poloni da Ponte della Priula.
“Gli affreschi si faranno. La curia mi ha promesso
sessantamila lire ma come può ben immaginare non bastano. Ho pensato che
in uno dei due potremmo raffigurare l’arrivo a Collalto delle Sacre
Spine portate dalla sua famiglia all’epoca delle crociate, coi colori
del casato, ben s’intende, e magari anche col suo ritratto da qualche
parte ...signor conte”.
“Non serve arrivare a tanto. Mica ho intenzione di
abbandonarvi; sono o non sono il giuspatrono della chiesa di San
Giorgio?”.
I due uomini si guardarono fissamente negli occhi.
Quelli del conte sorridevano sotto le sopracciglia folte e aggrottate,
quelli del prete bassi per non tradire anche loro un soddisfatto
sorriso. Poi si strinsero la mano.
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